Arrivare in forma al Natale? Dieta equilibrata, un sonno riposante e un po’ di attività fisica quotidiana

Inizia il conto alla rovescia che ci porterà verso il Natale: si apre un periodo di preparativi, di addobbi, di ricerca di regali e golosità per celebrare le feste.  In questa girandola di impegni non dobbiamo trascurare il nostro benessere, e anche nelle giornate più concitate, trovare il modo per prenderci cura di noi e arrivare in forma a Natale. Solo così, infatti, potremmo affrontare gli stravizi e le abbuffate di rito, senza appesantirci e riducendo il rischio dei tanto temuti chili di troppo.   

 

Ma niente diete né privazioni: produrrebbero esattamente l’effetto opposto, facendo rallentare il nostro metabolismo e predisponendoci così ad assimilare tutte le calorie delle pietanze delle feste. Prima regola da seguire, dunque, comporre menu vari ed equilibrati, con porzioni controllate e a base di alimenti detox.

 

Largo a frutta e verdura, cereali integrali ricchi di fibre, legumi, minestre e zuppe per far il pieno di vitamine e antiossidanti, pesce ricco di Omega 3, mentre è necessario ridurre il consumo di carboidrati e di alimenti molto lavorati, ricchi di zuccheri e grassi. Organizzare l’alimentazione in cinque pasti, cercando di tagliare dal 15 al 20% dell’apporto calorico abituale, significa potersi poi consentire qualche strappo alla regola in più. Allo stesso modo consumare snack, nutrienti ma facilmente digeribili, come noci e mandorle (4 o 5), garantisce l’apporto di preziosi Sali minerali oltre a indurre sazietà.

Altro passaggio importante: depurare il nostro organismo. Disintossicarsi e migliorare l’efficienza di fegato e intestino è fondamentale per affrontare l’abbondanza delle feste senza danno e senza andare incontro a problemi digestivi. Consumare almeno una porzione al giorno di cavoli, cipolle, broccoli, zucca, porro, carciofi e finocchi può rappresentare un’ottima abitudine disintossicante, così come bere al mattino a digiuno un bicchiere di acqua tiepida con un limone spremuto. Perfetto per purificare il fegato e promuovere il buon funzionamento del nostro metabolismo.  Anche cibi come peperoncino, cannella, zenzero, ma anche agrumi, cacao e alghe, possono favorire il senso di sazietà e promuovere il buon funzionamento metabolico.

Infine, non possono mancare il movimento quotidiano e un sonno riposante, essenziali per ridurre lo stress, innalzare il tono dell’umore e assicurare il nostro benessere psicofisico.
Per stare in forma prima delle feste natalizie, è bene cercare sempre di ritagliarsi una mezz’ora al giorno da dedicare ad un’attività fisica da praticare a un livello sostenuto, che può essere anche una passeggiata a passo veloce o l’abitudine a fare le scale, rinunciando all’ascensore.

Piccoli accorgimenti e semplici abitudini quotidiane, che tutti insieme però ci consentiranno di non dover rinunciare a nessuna delle prelibatezze con cui festeggiaremo il nostro Natale in famiglia.

Panettone o pandoro? A ciascuno il suo, ma senza non può essere Natale

La domanda è d’obbligo: preferisci il panettone oppure il pandoro? Due scuole di pensiero, gusti diversi e schiere di estimatori pronti a sostenere le buone ragioni dell’uno o dell’altro   origini e tradizioni. Ogni pranzo di Natale che si rispetti deve concludersi con questi dolci della tradizione, che secondo l’indagine, condotta come ogni anno, dall’Osservatorio nazionale Federconsumatori, gli italiani preferiscono nella versione classica, pur apprezzando le golose varianti che vengono proposte.

Tuttavia quest’anno l’aumento dei prezzi non ha risparmiato i dolci natalizi, a causa soprattutto del costo della farina di frumento che nel 2022 è salito di oltre il 63%. Sempre secondo Federconsumatori, l’aumento medio per questi prodotti sarà dell’8%. A far salire i prezzi dei dolci tipici natalizi è soprattutto il panettone, che sale mediamente del 9% rispetto al Natale 2021, con picchi del 13% in più se si tratta di quello artigianale. In controtendenza, invece, il pandoro industriale, il cui prezzo scende del 5% rispetto a un anno fa.

Ma nell’ampia offerta disponibile sul mercato, come riconoscere il prodotto di qualità? “Non è sempre facile orientarsi tra l’ampia gamma di prodotti proposti, la cui varietà può disorientare il consumatore, distraendolo da elementi importanti. Per questo l’osservatorio nazionale della nostra associazione – spiega Luca D’Onofrio, presidente di Federconsumatori Toscana – invita i consumatori a seguire alcuni consigli”.

Innanzi tutto, la confezione deve essere integra, e deve indicare, oltre alla data di scadenza, anche la denominazione del prodotto.

 

La dicitura ‘dolce natalizio’ o ‘dolce di Milano’ o ‘dolce di Verona’, al posto di ‘pandoro’ o ‘panettone’ consente l’impiego di ingredienti diversi dalla ricetta classica. Dal 1 agosto 2005 questi dolci tradizionali, insieme alla Colomba, ai Savoiardi e agli Amaretti hanno una precisa carta di identità, che Ministero delle Attività Produttive e dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali ha individuato definendo composizione, regole di etichettatura e processi tecnologici, allo scopo di proteggerne la tipicità e la qualità.

 

Se l’acquisto viene fatto via telefono oppure on line, è consigliato chiedere la verifica delle informazioni obbligatorie in etichetta, prima di concludere la transazione.

 

Un altro suggerimento consiste, quando possibile, nel verificare lo stato di lievitazione e la regolarità della curvatura del dolce. Circa l’aspetto, inoltre, il panettone che presenta molti canditi e uvette in superficie, quasi certamente avrà un impasto interno ricco; mentre il pandoro deve apparire dorato in modo uniforme, senza risultare unto all’esterno.

Una volta acquistato, la qualità del prodotto scelto sarà rivelata subito dal profumo e dalla alveolatura, ovvero la dimensione e la quantità di alveoli (i “buchi”) presenti all’interno dell’impasto: nel caso del panettone, quanto più è disomogenea, tanto più la lievitazione e la scelta delle farine sono ottimali; nel caso del pandoro, invece, l’alveolatura deve essere più fine e compatta.

È proprio quell’equilibrio ideale tra sapore, profumo, consistenza, che ad ogni fetta ci riporta alla magia delle feste della nostra infanzia, a costituire il vero ingrediente magico di questi dolci della tradizione. Il motivo per cui saranno sempre irrinunciabili.

 

Olio, Cannonau e lentisco: il ruolo della dieta sardo-mediterranea per vivere a lungo e bene

A Perdasdefogu, nel Nuorese, ormai è certificato, ci abita il maggior numero di centenari ancora in vita al mondo in proporzione al numero di residenti, uno ogni 222 abitanti. Nel 2012 il piccolo paese sardo era già finito nel libro dei record per la famiglia più longeva del mondo, quella dei Melis: 9 tra fratelli e sorelle che assieme totalizzavano 837 anni. Di questa incredibile famiglia è diventato celebre anche il minestrone, simbolo della loro longevità e preparato solo con gli ortaggi coltivati nell’orto di casa.

 

Perché l’alimentazione è sicuramente parte del segreto dei centenari sardi. C’entra sicuramente il Dna e c’entrano gli stili di vita in un perfetto mix tra genetica, rete sociale e i prodotti di una terra benedetta dalla natura. I cittadini dell’Ogliastra, zona centro-orientale della Sardegna, hanno infatti ingaggiato una lunga battaglia giuridica per blindare il loro patrimonio genetico, ovvero le informazioni della famosa Banca dei centenari, che era stata venduta all’asta e rischiava di finire in mano a una company privata britannica. Oggi, ha spiegato all’Adnkronos Salute Flavio Cabitza, presidente dell’Associazione per la tutela dell’identità ogliastrina e della Barbagia di Seulo, siamo noi i custodi del nostro sangue e vogliamo iniziare a studiarlo.

 

Missione: esportare la longevità. Almeno la componente che può essere condivisa, finendo sulle tavole di chi vive fuori dai confini sardi.

 

Intanto, l’associazione lavora a progetti di studio. Uno in cantiere, che potrebbe a brevissimo essere varato, verrebbe condotto con l’università di Cagliari. L’idea è di andare a studiare – su campioni che verrebbero presi negli ossari del territorio – i batteri orali e il microbioma dei centenari e poi testare in laboratorio quanto raccolto con vari alimenti dell’area. Un’area ricca di prodotti: “Olio, vino Cannonau, ma penso anche alle pere di San Giovanni, che nascono sui campi non coltivati, ed è stato osservato che hanno capacità antistress per le cellule di bocca e gengive e mantengono i batteri in equilibrio. C’è poi il lentisco, pianta sempreverde con le bacche rosse, che è un antibatterico per eccellenza per il cavo orale. I nostri antichi queste cose le sapevano già, per esempio quando avevano mal di denti masticavano il lentisco. Noi vogliamo una validazione scientifica”.

 

“Se l’alimentazione sarda ottenesse questo bollino blu, venendo correlata alla longevità vorremmo che anche chi non vive in Sardegna potesse beneficiarne. Mangiando sardo anche a Milano, per dire. Ha fatto qualcosa di simile anche un’altra Blue Zone, l’isola di Okinawa in Giappone: uno studio pubblicato su riviste scientifiche specializzate ha dimostrato nei topi che le patate dolci allungavano la vita” dei modelli animali osservati. “Noi vogliamo arrivare a questo traguardo. Il nostro sangue, il nostro Dna, devono servire per dimostrare il ruolo della dieta sardo-mediterranea nella longevità, il suo valore”.

 

Per il progetto che si concentra sui batteri orali e sul microbioma si metterebbero in campo “circa 100mila euro”. Sono una parte “dell’unico finanziamento di 200mila euro ottenuto finora dallo Stato nell’ultima manovra finanziaria”, spiega Cabitza. Perché per questo patrimonio unico al mondo il problema adesso sono i fondi. Messa insieme da SharDna, l’azienda che poi è fallita, “la nostra banca dati ha i campioni biologici e le informazioni su malattie, regime alimentare e altri dati importanti. E ha anche l’albero genealogico fino al 1540 di ogni ogliastrino che ha donato il sangue, in tutto 11.700 persone, distribuite in dieci paesi. In una zona in cui l’aspettativa di vita per l’uomo e la donna sono identiche. I ricercatori che volessero avviare studi avrebbero quindi a disposizione una miniera preziosa”.

 

 

Il panettone: un dolce sempre più internazionale per celebrare il Natale in famiglia

Secondo l’indagine Nielsen-CSM Ingredients “L’evoluzione del consumo dei panettoni in Italia” il settore vale 217 milioni di euro a cui si aggiugono i 118 milioni del comparto artigianale. In generale, sei famiglie italiane su dieci acquistano per le ricorrenze di Natale un dolce come il panettone o come il pandoro che si contendono tra loro il trono di re delle feste.

 

Tra le tante narrazioni che provano a ricostruirne le origini, una delle più diffuse e curiose vede come protagonista uno sguattero che lavorava nelle cucine alla corte di Ludovico il Moro nella Milano del Quindicesimo secolo.

 

Era la Vigilia di Natale e il cuoco ufficiale della famiglia Sforza inavvertitamente bruciò il dolce da servire al banchetto ducale. Fu Toni, uno sguattero che lavorava a corte, a risolvere la situazione cucinando un dolce con quello che riuscì a trovare in cucina, ovvero farina, uova, uvetta, canditi, zucchero e lievito.

 

Quando fu servito a tavola, il dolce venne così apprezzato che la famiglia Sforza decise di chiamarlo il pan di Toni e fu così che nacque il panettone.

 

Per trovare un’origine magari meno narrativa ma più storica, bisogna ricordare come fino al 1395 tutti i forni milanesi avessero il permesso di cuocere pane di frumento solo a Natale per omaggiare i loro clienti e per celebrare le feste con un prodotto più ricco di quello quotidiano a base di miglio e di altre farine. Nel 1606 il termine “panettone” compare nel dizionario milanese-italiano mentre per la sua forma tipica occorre attendere gli anni Venti del Novecento quando Angelo Motta, prendendo ispirazione da un dolce pasquale della tradizione ortodossa, decise di aggiungere anche il burro e di avvolgerlo nella carta paglia.

 

Nel corso degli ultimi anni, il panettone ha trovato, anche grazie a premi, concorsi come il Campionato Mondiale Miglior Panettone del mondo e al coinvolgimento dei migliori pasticceri italiani, una diffusione capillare su tutto il territorio del Paese andando a valorizzare la cultura gastronomia regionale.

 

Cosa succede, per esempio, se il dolce simbolo del Natale arriva in Piemonte? Che si arricchisce di un goloso cioccolato gianduia e delle celebri nocciole Igp regionali. In Valle d’Aosta prende, invece, i sapori di montagna con noci, farina di segale e miele di castagno mentre in Tirolo viene coperto anche con i semi di papavero che ricordano il tipico pane altoatesino. Fino a scendere lungo lo stivale incontrando, nel Lazio, anche una versione sapida composta da un impasto farcito con formaggio pecorino e pepe. In Abruzzo assume le fragranze della liquirizia e dello zafferano, in Campania viene inzuppato nel rum come il tradizionale babà, in Sicilia assume tutta l’opulenza di ingredienti come i pistacchi, il miele di acacia, le scorze di arance e limoni.

 

Insomma, un dolce di origine milanese la cui tradizione ha ormai conquistato tutta l’Italia ma che a Milano conserva ancora una particolare usanza: a Natale bisogna ricordarsi di mettere da parte una fetta di panettone e conservarla fino al 3 febbraio, giorno di San Biagio, protettore della gola. Un rimedio tradizionale e un gesto propiziatorio per prevenire i malanni della stagione invernale.

La lingua che cambia: “videoricette” tra le nuove parole dello Zingarelli 2023

Il cibo è popolare. Parlare di ricette, ingredienti, provenienza, etichette, tradizioni gastronomiche è pratica comune, soprattutto in Italia dove il food è parte integrante della nostra stessa cultura. Con la diffusione dei social non poteva mancare, anche a livello globale, una crescita esponenziale degli argomenti connessi al cibo: sui social network sono, per esempio, 56 miliardi le visualizzazioni registrate dai contenuti pubblicati su TikTok con lhashtag #cooking. Oltre a 51 milioni di contenuti presenti su Instagram con lo stesso tag.

 

La stessa parola “videoricette” è ormai diventata talmente comune da essere stata inserita nell’edizione 2023 del vocabolario Zingarelli tra i circa mille nuovi lemmi.

 

Si tratta, infatti, di una parola diventata di uso quotidiano per i tanti siti, blog, social che ne pubblicano ogni giorno migliaia in tutto il mondo. E che hanno contribuito a creare dei veri e propri fenomeni sulle varie piattaforme online, persone con centinaia di migliaia di follower e milioni di contatti. Al punto che, spesso, dietro alle videoricette più seguite, quelle che ottengono fiumi di like sui social network, ci sono ore di lavoro e squadre di professionisti.

 

Nell’edizione 2023 del vocabolario Zingarelli, oltre a videoricette, saranno presenti 1000 nuove parole che entrano ufficialmente a far parte della lingua italiana. Espressioni d’uso comune come boomer e millennial ma anche termini legati a tematiche ambientali come transizione ecologica. E gli anglicismi? Ad oggi rappresentano soltanto il 3% delle voci del vocabolario Zingarelli, in calo rispetto a quanto accadeva nel dizionario del 2017 in cui occupavano quasi il 5% del totale.

 

Dalla prima edizione dello Zingarelli, pubblicata in fascicoli nel 1917, sono state più di 30mila le parole che hanno trovato ingresso nella lingua italiana raccontando come evolve la società attraverso il nostro linguaggio. La lingua è viva e il dizionario si arricchisce di continuo di nuove espressioni. Un merito per l’italiano che è la quarta più studiata al mondo, in grado di rinnovarsi a una velocità così sorprendente da avere costretto i dizionari come lo Zingarelli ad aggiornarsi praticamente ogni anno, aggiungendo di volta in volta tutte le nuove parole entrate a far parte della lingua comune degli italiani.

 

Altre parole raccontano di un movimento verso abitudini e stili di vita più essenziali, come decluttering, l’eliminazione del superfluo, anche in senso figurato (decluttering mentale) o decumulo che indica privazione e denota una strategia di riduzione progressiva di beni in precedenza accumulati. Alcuni neologismi raccontano di una realtà sempre più dematerializzata, come metaverso, cioè uno spazio virtuale che l’utente può abitare col proprio avatar, dove forse in futuro potrà svolgersi il cosiddetto apprendimento ibrido, cioè effettuato in parte in presenza, in parte da remoto.

 

Se gli anni scorsi le nuove parole raccontavano, da un lato, una società necessariamente segnata dalla pandemia, con un massiccio ingresso di termini tecnici e specialistici nel discorso comune – da “termoscanner” a “ossimetro”, da “zooantroponosi” a “salto di specie” – ma che fotografavano anche una forte polarizzazione di posizioni e opinioni, come per esempio i neologismi con prefisso anti- (antispecista) o con prefisso no- (da no-vax a no-mask), lo Zingarelli 2023 sembra in qualche modo riflettere un movimento, un cambiamento verso posizioni meno nette. Come indicato dal crescente uso di ni- con valore di prefisso (sul modello di no) con il significato di atteggiamento incerto rispetto a scelte che dividono i favorevoli e i contrari.

 

Altre nuove parole entrate in questa edizione raccontano di una realtà in evoluzione verso un mondo più sostenibile, con tra i neologismi biohotel ed ecostazione. Altri parlano del cambiamento di modelli e atteggiamenti, come l’aggettivo “bioispirato”, che indica ciò che è realizzato sul modello di forme o sistemi viventi (un profilo aerodinamico bioispirato al volo degli uccelli) o greenwashing che denota invece un ambientalismo solo di facciata, specialmente da parte di un’azienda che vuole presentarsi come ecologicamente responsabile, anche se solo in apparenza.

Kombu, agar agar, kelp, spirulina, salicornia, wakame, nori: le alghe entrano in cucina. Fresche, essiccate o come integratori

Non fanno propriamente parte della nostra tradizione culinaria ma rappresentano un ottimo alimento che sta prendendo piede anche da noi. Parliamo delle alghe, le principali produttrici di ossigeno sulla Terra. Qualcosa come 30mila specie, per lo più microscopiche ma anche commestibili, in alcuni case davvero buone. E con buone proprietà nutritive, a partire da proteine, vitamine e minerali. Le macroalghe si dividono abitualmente in tre grandi famiglie in base al loro colore, che è determinato dalla capacità di assorbire la luce: le alghe azzurre-verdi, più ricche di clorofilla e prossime alla superficie del mare, le alghe rosse che vivono a profondità maggiori, oltre i 10 metri e fino ai 50. E, infine, le alghe brune che vivono fino ai 100 metri di profondità.

 

Il mercato globale delle alghe vale attualmente circa 8 miliardi di dollari l’anno e cresce a un tasso annuo dell’8%, fino a salire al 9,7% nei prossimi anni. L’Asia rappresenta il 95% della produzione. Il mercato globale commerciale è maggiormente costruito da acquacultura, ovvero dalla coltivazione, piuttosto che dalla raccolta spontanea delle alghe.

 

E la domanda di alghe essiccate in Italia? Circa di 200 tonnellate all’anno per utilizzi che vanno dall’alimentare alla nutraceutica, dalla cosmesi alla farmacopea, fino ai mangimi per i pesci. Ma solo meno del 13% viene soddisfatta dalla produzione nazionale e per i tre quarti è concentrata sulla spirulina.

 

Gli allevamenti di alghe assorbono la CO2 e i nutrienti in eccesso nell’acqua, contribuendo a mantenere il mare pulito e creando nuovi habitat per i pesci. Senza considerare che la coltivazione delle alghe potrebbe aiutare l’occupazione connesse all’economia costiera: secondo la coalizione Seaweed for Europe, si parla di un’industria che potrebbe creare 115 mila nuovi posti di lavoro entro il 2030.

 

Tra gli utilizzi che si possono fare in cucina, le alghe essiccate possono diventare un aromatizzante per l’olio extra vergine di oliva e per il burro. Oltre che essere una naturale fonte di Omega3 da inserire nella normale alimentazione dei nostri animali domestici come cani e gatti. Tra le alghe più diffuse, la kombu viene consumata sia cruda che cotta per il suo sapore dolce che si abbina, per esempio, ai legumi e nelle zuppe. L’alga wakame,

assieme alla kombu e alla nori tra le più utilizzate in Giappone, viene consumata fresca, saltata in padella, essiccata e poi reidratata per qualche minuto, in insalata, cotta con altre verdure, in stufati, con il tofu e con il riso. È un ingrediente indispensabile nella zuppa di miso e nel ramen per il suo sapore delicato con una nota caratteristica di mare che viene ancora di più valorizzata quando è consumata come condimento, dopo tostatura e trasformazione in polvere.

 

L’alga nori, detta anche lattuga di mare, è famosa per la preparazione del sushi e viene anche proposta in fogli che vanno delicatamente tostati sulla fiamma fino ad assumere un colore verde. La kelp, ricca di iodio, viene invece spesso cotta in acqua bollente, per diventare una sorta di insalata con l’aggiunta di sesamo, salsa di soia e peperoncino, mentre la salicornia, anche detta asparago di mare, viene lessata al vapore e consumata proprio come gli asparagi, condita con olio e limone. Oppure, soffritta in padella con olio, aglio e peperoncino, aggiunta alla frittate, abbinata come contorno ai fagiolini verdi o ai piatti di pesce.

 

L’alga dulce ha un gusto affumicato simile al bacon, l’agar agar è una specie di gelatina ricavata dall’alga rossa tengusa che trova un largo uso come addensante nella preparazione di piatti dolci e salati. Senza dimenticare, l’alga spirulina, lalga klamath, la clorella e la cava che vengono frequentemente impiegate, piuttosto che in cucina, come integratori per lo iodio e nelle diete dimagranti.

Aspetto inconsueto, sapore aspro e molto aromatico: la pompìa sarda è uno degli agrumi più rari al mondo e un presidio Slow Food

Troppo aspra per essere mangiata o bevuta: non può essere consumata fresca, ma è l’agrume più raro e prezioso per preparazioni soprattutto dolci dal sapore antico e dalle virtù benefiche. Più unico che raro, a dire le verità, perché cresce solo in Sardegna, diffuso in alcune zone della Baronia e principalmente nel territorio di Siniscola, da Busoni a Orosei, una zona ricca di agrumeti.

Si tratta della pompìa, un agrume dalla scorza bitorzoluta, che può raggiungere anche grosse dimensioni, con un peso medio superiore ai 700 grammi.  È uno degli agrumi più rari al mondo, che Fondazione Campagna Amica ha eletto come Sigillo presente all’interno dell’Atlante della biodiversità. Citrus mostruosa il nome botanico attribuito nel 1837 da Giuseppe Moris a questo frutto, una sorta di ibrido tra cedro e limone (ma qualcuno dice tra cedro e pompelmo), che cresce su un albero simile all’arancio, dotato però anche di spine.

 

A lungo dimenticata, fino alla riscoperta negli anni ’90 ne esistevano soltanto poche centinaia di alberi. Diventata nel 2004 un presidio Slow Food, nel 2015 riceve il definitivo riconoscimento accademico. A questo agrume vengono attribuite molteplici proprietà benefiche, soprattutto di natura antisettica e rinfrescante, per contrastare infezioni delle vie respiratorie, urinarie e gastrointestinali.

 

La pompìa, di cui si impiega soltanto la scorza e la parte bianca, è molto aromatica e viene utilizzata principalmente per preparazioni dolci, che richiedono una lunga cottura e grandi quantità di miele o zucchero come il sa pompìa intrea, ricetta tramandata da secoli solo oralmente e solo per via femminile, e s’arantzata (o arantzada), un dolce d’origine medioevale che veniva preparato per le feste più importanti come nascite, fidanzamenti, matrimoni, un dolce fatto di scorza caramellata riempita di mandorle, miele e i sa trazea, dei piccoli confettini colorati. La pompìa viene impiegata anche per tantissime altre ricette come la panna cotta, granite, gelati, marmellate e confetture. Spalmata sulle carni è ottima per esaltare un contrasto di sapori, mentre per passare da un piatto all’altro niente di meglio del sorbetto alla pompìa, che può rappresentare anche un ottimo dessert, date le proprietà digestive di questo agrume.

Ma la pompìa si presta anche ad altri impieghi non alimentari. La polpa, che non è commestibile per l’elevata acidità, può essere usata per lucidare i metalli come il rame, l’ottone e l’oro.

Poco nota ai più, la pompìa trova però frequente citazione nei racconti della scrittrice sarda Premio Nobel per la letteratura Grazia Deledda: «Famosa è la “pompia” nuorese, cioè il pomo di Adamo cucinato col miele». A testimonianza del profondo radicamento culturale che questo agrume antico ha nella tradizione gastronomica sarda.

Meglio un uovo oggi o una gallina domani? Meglio un uovo da galline allevate a terra e libere dall’uso di antibiotici

Ricche di proteine nobili e vitamine, le Uova senza l’uso di antibiotici Ohi Vita favoriscono il benessere del consumatore attento alle proprie scelte. Vitamine, nutrienti e tanto gusto: parliamo di uova 100% italiane, a filiera certificata da galline allevate a terra, con mangimi no Ogm e senza l’uso di antibiotici, fin dal pulcino.

 

Le uova rappresentano una importante fonte di proteine nobili perché contengono tutti gli amminoacidi essenziali alla nostra salute, ovvero quei mattoncini delle nostre cellule che non siamo in grado di auto produrre. Sono fonte di vitamine, principalmente vitamina A, che contrasta i disturbi della vista e protegge le ossa e la pelle, e di vitamine del gruppo B essenziali per il metabolismo energetico e per il corretto funzionamento di numerosi organi vitali.

 

Secondo il padre della medicina occidentale Galeno, vissuto nel II secolo d.C, un uovo non deve mai mancare nella dieta, soprattutto degli anziani. Le uova sode erano anche uno degli alimenti tradizionali nellAntica Roma e venivano servite come antipasto.

 

Grazie alla forma ovale, le uova sono molto resistenti: anche se hanno un guscio molto sottile, possono sopportare il peso di diversi chili distribuendo uniformemente la pressione sull’intera superficie dell’uovo.

 

“Camminare sulle uova” significa trovarsi in una situazione delicata mentre “cercare il pelo nell’uovo” identifica l’estrema precisione, al limite della pedanteria. Rompere le uova nel paniere descrive lazione di chi interviene in una situazione in modo poco delicato, rovinandola, infine “meglio un uovo oggi che una gallina domani” si riferisce all’utilità di scegliere subito un piccolo vantaggio piuttosto che rimandare a un futuro indefinito il premio più grande.

 

L’uovo più celebre? Forse quello di Colombo: si narra che al rientro dal suo primo viaggio in America, Cristoforo Colombo venne deriso da alcuni nobili spagnoli che volevano sminuire l’impresa compiuta. Lui lì sfidò a mettere un uovo diritto su un piano. Nessuno vi riuscì, tranne lui, che diede un piccolo colpo alluovo per incrinarne leggermente il guscio e metterlo in perfetto equilibrio. Tutti avrebbero potuto trovare un modo per farlo, ma era lui l’unico a esserci riuscito, proprio come era stato lui l’unico a scoprire un nuovo continente. Lo stesso aneddoto, però, è stato attribuito dal Vasari allarchitetto fiorentino Filippo Brunelleschi: volendo assicurarsi l’appalto per la costruzione della cupola del Duomo di Santa Maria del Fiore a Firenze, per spiegare i dettagli del metodo che intendeva utilizzare nella costruzione della cupola, sfidò i suoi concorrenti a far star dritto un uovo sul tavolo… e la storia va avanti come per Colombo.

 

Come sia la storia, le Uova senza l’uso di antibiotici Ohi Vita raccontano come l’attenzione al benessere animale si possa tradurre in attenzione alla salute del consumatore. Il meglio della tradizione avicola italiana permette, infatti, di portare in tavola un prodotto sicuro, a partire dalla cura delle galline allevate a terra, senza luso di antibiotici, nutrite con mangimi vegetali privi di grassi aggiunti, farine animali e coloranti sintetici, non contenenti e non derivanti da mais e soia Ogm. Un controllo continuo, scrupoloso e accurato scandisce tutti i passaggi della filiera produttiva a salvaguardia della qualità del prodotto finale.

 

Insomma, uova 100% italiane e sottoposte a uno stretto regime di tracciabilità: la garanzia migliore perché raccontino provenienza, percorso di filiera e proprietà nutritive. Garanzie per il consumatore che vuole operare una scelta consapevole, sostenibile e di qualità.

 

Giovani e dinamiche, le startup dell’agrifood promuovono la sostenibilità del settore alimentare per raggiungere gli SGDs dell’Agenda 2030

Nella Decade of Action, come l’Onu ha definito il decennio 2020-30, occorre accelerare sulla via dello sviluppo sostenibile, soprattutto nel settore agroalimentare, in cui i dati raccontano di una crisi di proporzioni sempre più estese. Nel 2021, secondo i dati FAO, ben 828 milioni di persone soffrono la fame, mentre altri 2,3 miliardi di persone si trovano in stato di moderata o grave insicurezza alimentare. Anche in Italia, il 6,3% della popolazione si trova a fronteggiare problemi di accesso al cibo.

 

Un ruolo importante nel settore agroalimentare a livello mondiale lo stanno sempre più giocando le startup, che spesso nascono inserendo nella propria strategia di sviluppo i temi cruciali della sostenibilità. Lo rivela l’ultima ricerca dell’Osservatorio Food Sustainability della School of Management del Politecnico di Milano. Dallo studio emerge che il 34% delle startup dell’agrifood censite tra il 2017 e il 2021 sono infatti impegnate a perseguire uno o più SDGs dell’Agenda 2030 dell’Onu.

 

E lo fanno in relazione all’utilizzo delle risorse naturali (SDG 12 target 12.2, il 30% delle startup); alla tutela degli ecosistemi terresti e d’acqua dolce (SDG 15 target 15.1, il 21%); alla promozione della cultura della sostenibilità (SDG 12 target 12.8, il 17%); all’aumento della produttività e della resilienza rispetto ai cambiamenti climatici (SDG 2 target 2.4, il 17%); alla promozione del turismo di prossimità e sostenibile e delle produzioni locali (SDG 8 target 8.9, il 16%). Meno diffuse sono le azioni a favore della riduzione dello spreco alimentare (SDG 12 target 12.3, 11%), del lavoro dignitoso e di qualità (SDG 8 target 8.5, 8%) e della promozione dell’uso efficiente e dell’accesso equo alle risorse idriche (SDG 6 target 6.4, 7%).

“Di fronte alle sfide epocali ed emergenti del settore, le startup agrifood propongono soluzioni innovative che puntano a migliorare la sicurezza alimentare e favorire la transizione a modelli di produzione e consumo più sostenibili e inclusivi – afferma Paola Garrone, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Food Sustainability -. Le giovani imprese sono le prime a farsi promotrici di tecnologie, servizi e modelli di business innovativi, cogliendo nuove opportunità di mercato. I modelli di business proposti sono essenzialmente orientati alla sostenibilità, per cui diventano il soggetto ideale per osservare da vicino i trend di innovazione e l’introduzione di nuove pratiche di sostenibilità nell’agrifood”.

Con una popolazione fortemente urbanizzata, le città si rivelano sempre più vulnerabili nel garantire l’accesso alle risorse alimentari, e la crisi pandemica ha messo in evidenza queste criticità, rendendo sempre più necessarie azioni sinergiche per contrastare lo spreco alimentare. “Emerge il ruolo fondamentale delle collaborazioni cross-settoriali per il recupero e la distribuzione di alimenti a fini sociali – ha spiegato Giulia Bartezzaghi, Direttrice dell’Osservatorio Food Sustainability – Queste esperienze coinvolgono ente pubblico locale e privato, profit e non profit, aggregando risorse e competenze strategiche sul territorio per fornire una risposta congiunta al fabbisogno crescente di cibo sano e nutriente da parte delle fasce più vulnerabili della popolazione urbana”.

Nascono da qui tutte quelle esperienze che untano al recupero e alla ridistribuzione delle eccedenze alimentari, tramite diverse forma che vanno dalla donazione alla spesa sospesa fino alla trasformazione dell’eccedenza in pasto cucinato o prodotto distribuito dai cosiddetti supermercati sociali. Come il “Culinary Misfit” a Berlino, che riutilizza frutta e verdura scartata per difetti per cucinare pasti serviti gratuitamente alle persone in difficoltà. O ancora esperienze di spese sospese come “Spesa SOSpesa” al mercato comunale nel quartiere Nolo di Milano e “Fate Bene” a Torino.

 

La pasta italiana ogni giorno arriva nelle case e nei ristoranti di 200 nazioni al mondo, sempre più sostenibile

Cominciamo da un dato: l’Italia è il primo Paese produttore di pasta con 3,6 milioni di tonnellate. Seguono Turchia. Ma gli italiani sono anche i primi consumatori con 23 kg pro capite annui, davanti a Tunisia (17), Venezuela (15) e Grecia (12,2). Se il 2021 ha registrato 2,2 milioni di tonnellate di pasta esportata, le elaborazioni di Unione Italiana Food su dati Istat rivelano nei primi sei mesi del 2022 un’ulteriore crescita (+9%).

 

In valori assoluti, Germania, UK, Francia, Usa e Giappone sono i mercati più strategici. Ma la voglia di pasta italiana registra crescite superiori al 40% verso Colombia, Paesi Bassi, Arabia Saudita.

 

Nel 2021 il mondo ha consumato quasi 17 milioni di tonnellate di pasta, il doppio di 10 anni fa. Italiano un piatto su quattro. Ma non solo, la pasta riscuote un grande successo anche all’estero, ogni giorno 75 milioni di porzioni di pasta italiana sono state proposte nelle case e nei ristoranti di quasi 200 Paesi.

 

E nei ristoranti italiani di tutto il mondo emerge che nell’82% dei casi, il consumo è aumentato, un trend che si riscontra soprattutto in Giappone e in Francia.

 

Ma il consumo in crescita costante di questo prodotto di punta del Made in Italy è sempre più accompagnato anche dallo sviluppo, della ricerca e dell’innovazione. Oltre che della sostenibilità: ogni anno i pastai italiani investono in media il 10% del proprio fatturato in ricerca e sviluppo per rendere la loro produzione più moderna, sicura e sostenibile. In questo senso, nel periodo 2013-2019 l’industria della pasta ha provveduto a risparmiare sulla produzione 270 mila m3 di acqua (-4%), ha ridotto le emissioni di CO2 di 69 milioni di kg (-11%) e recuperato 19,5 milioni di kg di rifiuti (+33%). Le imprese del comparto lavorano anche alla realizzazione di impianti di trigenerazione alimentati a metano per la produzione di energia elettrica per la refrigerazione e di energia termica impiegata nella fase di essiccazione.

 

Considerando, inoltre, che il 99% degli italiani la consuma in media 5 volte la settimana per un consumo annuo pro capite di 23 kg a testa, la pasta ha una sua sostenibilità anche dal punto di vista alimentare: una porzione da 80 grammi di pasta registra, infatti, un’impronta carbonica pari a soli 150 grammi di CO2.

 

Senza dimenticare tutti gli interventi in fase di studio e realizzazione per la riduzione degli imballaggi secondari. A partire dal packaging 100% compostabile. È in corso, in questa direzione, un lavoro congiunto di un pool di aziende tutte italiane coordinate dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Il progetto prevede l’uso di materie prime derivanti dalla lavorazione di prodotti agricoli e di altre risorse compostabili per realizzare il packaging esterno in modo che, alla fine del suo percorso, potrà trasformarsi in compost fertilizzante.